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Recensione del film “Qui rido io” di Mario Martone.

L’ultimo film di Mario Martone, “Qui rido io”, è un bel film, quello che si dice di solito “un film riuscito”.

Analizza a fondo la figura di Eduardo Scarpetta, attore e commediografo, il massimo esponente del teatro napoletano nei decenni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, erede del grande successo del suo maestro Antonio Petito.

Ma, a pensarci bene, la figura di Scarpetta è un pretesto che Martone utilizza per indagare da un lato le contraddizioni che caratterizzano – chi più e chi meno, chi in un modo chi in un altro – l’animo di ogni uomo, dall’altro il clima culturale e politico dell’Italia in generale e di Napoli in particolare agli inizi del 900.

Per quanto riguarda Scarpetta viene fuori innanzitutto un uomo dalla vis artistica geniale, straripante, molto sicuro di sé, perché consapevole del suo talento sia di commediografo che di attore, ma enormemente accentratore, tendente quindi a schiacciare gli altri componenti della sua compagnia, compresi i figli.

E poi grande, forse persino assatanato, amante delle donne, alcune delle quali faceva vivere (praticamente convivere) nella sua stessa casa o nelle immediate adiacenze, come in una specie di grande comune; ma allo stesso tempo indifferente, quasi inconsapevole delle dinamiche dolorose che i suoi pluriamori scatenavano tra le numerose amanti e i figli (ancora più numerosi) da loro avuti.

Ancora: estremamente generoso, grazie ai grandi guadagni accumulati, coi componenti della sua famiglia allargata, ma allo stesso tempo estremamente tirato, taccagno, spilorcio, con gli attori della sua compagnia, i quali si lamentavano tutti dei miseri compensi che da lui percepivano.

Infine, di Scarpetta viene descritta molto bene la parabola umana ed artistica: dall’immediato, rapido successo (la maschera da lui inventata e interpretata, quella di Felice Sciosciammocca, arriva a soppiantare quella di Pulcinella, portata in auge pochi decenni prima da Antonio Petito) fino al progressivo tramonto, umano e professionale.

Dovuto in parte alla nascita e al successo del grande varietà e del cinematografo, in parte ad una causa intentatagli con l’accusa di plagio da Gabriele D’Annunzio, che ne paralizzò l’attività per tre anni, dal 1906 al 1908.

Accusa da cui egli seppe però difendersi benissimo, anche grazie all’appoggio che gli fornì Benedetto Croce, e dalla quale alla fine di un tormentato processo fu completamente scagionato, con una sentenza del tribunale di Napoli che all’epoca fece clamore.

Nel film – dicevo all’inizio – viene descritto anche, seppure sullo sfondo della vicenda umana ed artistica di Eduardo Scarpetta, il clima culturale e politico dell’Italia e in modo particolare di Napoli tra la fine dell’800 e gli inizi del 900.

Un clima che potremmo definire da “belle epoque”, dove la spensieratezza, il divertissement, l’allegria, la comicità, la risata, lo sberleffo, la battuta sarcastica e dissacrante, tipici del teatro di Scarpetta, ma non solo di Scarpetta, tendono se non proprio a coprire e rimuovere, quantomeno a sminuire il dramma e perfino le tragedie della povertà diffusa, che diventava vera e propria miseria nel popolino.

A questo clima cercavano di reagire, almeno qui a Napoli, personaggi quali Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Roberto Bracco, che contestavano quelle che consideravano evasioni, alienazioni, e nelle loro poesie, canzoni e commedie volevano far emergere i drammi e le tragedie, soprattutto la povertà e la miseria del popolo; e, quindi, si ponevano in antagonismo a Scarpetta.

Anche se poi non si capisce bene perché (nel film questo aspetto non viene chiarito), nella tenzone legale contro l’attore commediografo, abbiano colluso e si siano alleati con un personaggio come Gabriele D’Annunzio, snob, dandy, amante del lusso e della bella vita, lontanissimo quindi dalla condizione della povera gente, che non solo ignorava, ma forse disprezzava finanche.

Nel film ha particolare importanza la colonna sonora, costituita da molte delle più belle canzoni napoletane di ogni tempo, a cominciare da quelle classiche di fine 800/inizi 900 a quelle più recenti degli anni 50 e 60; come a voler sottolineare (forse) una continuità tra il passato e il presente di Napoli, città che fa fatica, molta fatica, ad uscire dai suoi tradizionali cliché.

Bella e convincente l’interpretazione di Toni Servillo, nei panni del protagonista Eduardo Scarpetta, che egli rende magnificamente. Ma bella e convincente tutta la compagnia di attori, da cui Servillo è circondato, tra i più importanti del teatro napoletano e del cinema italiano.

Ottima la regia, come quasi sempre, di Mario Martone, mai banale, sempre attento alle inquadrature più efficaci, ai piccoli particolari della recitazione, alla colonna sonora, alla resa emozionale della storia senza mai scadere nel sentimentalismo e nella retorica.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Capri revolution”.

Finalmente ho visto “Capri revolution”, l’ultima opera di Mario Martone, che avevo perso in prima visione: l’ho recuperato al cineforum che frequento il martedì. Un film esteticamente molto bello, intrigante, coinvolgente. E contenutisticamente molto complesso, che può essere letto su più livelli: storico, economico, sociale, culturale, politico…

Livello storico. Il film vuole raccontare il clima in cui avvenne lo scoppio della prima guerra mondiale, quando si incrociavano e convivevano pulsioni e ideali ingenuamente pacifisti con tendenze e istanze ciecamente interventiste; il bisogno di un lavacro che quasi purificasse l’umanità e la consapevolezza del disastro immane al quale si stava andando incontro, la felicità e l’allegria della bella epoque e l’atroce presentimento della imminente carneficina.

Livello economico. Il film descrive la realtà agricolo-pastorale degli inizi del secolo scorso e l’avvio del processo di industrializzazione, con tutte le forti contraddizioni che questo avvio ha comportato. Emblematico il fatto che il padre di Lucia (la protagonista del film) nasce contadino-pastore e poi, con l’insediamento dell’acciaieria di Bagnoli, da Capri si trasferisce a Napoli e diventa operaio metallurgico: per questo si ammala ai polmoni e muore di cancro.

Livello sociale. Il film evidenzia le forti disuguaglianze presenti anche in una piccola realtà come Capri. I contadini-pastori vivono ovviamente in una condizione di estrema povertà. I ceti medi benestanti si sono arricchiti essenzialmente grazie al commercio legato al turismo. I contadini-pastori tendono ovviamente ad elevare la loro condizione economico sociale entrando a far parte della classe media, soprattutto attraverso matrimoni combinati (tipo quello che i fratelli propongono e quasi impongono a Lucia).

Livello culturale. La popolazione indigena vive in una condizione di grave arretratezza culturale. In gran parte è analfabeta. Pensa e agisce in base a schemi bigotti e patriarcali. Ne è un esempio eclatante il modo in cui i due fratelli (specie il maggiore e specie dopo la morte del padre) trattano la giovane Lucia, protagonista del film, quasi come se fossero i suoi padroni, insofferenti (a voler usare un eufemismo) ai suoi desideri/tentativi di emancipazione (c’è qui un’eco anche delle nascenti istanze femministe).

Eppure Capri ospita una comunità (anzi una “comune”) formata da uomini, donne e bambini provenienti in massima parte dalle nazioni del nord Europa. Che hanno sposato la condizione economica prevalente dell’isola (quella agricolo-pastorale), come una via per ritrovare l’antica natura della condizione umana e recuperarne la genuinità, praticando il nudismo, la danza, la musica, il canto, la pittura (le arti, insomma, nelle varie forme) e una sorta di religione pagana adoratrice della natura: il sole, la luna, il mare, le rocce…), di cui l’isola di Capri è quasi topos archetipo.

Ovviamente la presenza di una piccola comunità, così anomala e trasgressiva, all’interno della comunità più vasta dell’isola, del tutto tradizionale e conservatrice, ingenera il conflitto che sempre si genera tra l’istanza progressista e quella conservatrice. Anche se Lucia, la giovane pastorella di capre protagonista del film, si pone come l’anello di congiunzione tra le due istanze e alla fine entrambe le supera.

Lucia è attratta e turbata allo stesso tempo dai comportamenti degli abitanti della Comune: prova insieme ripugnanza e curiosità per il loro modo di vivere, ma alla fine ne è conquistata, abbandona la casa dove abitava assieme alla madre e ai fratelli e va a vivere nella comunità.

Livello politico. Un altro elemento dello scontro culturale, che in questo caso diventa anche politico, è dato dal rapporto tra quello che è un po’ il guru della comunità, Seybu (ascetico, contemplativo, naturista, vegetariano, trasgressivo sul piano dei costumi sessuali, ma ascientifico nella cura delle malattie, fanaticamente alla ricerca di fantomatici rimedi naturali e omeopatici) e Carlo, il giovane medico giunto da poco a Procida (uomo di scienza rigoroso, generoso, politicamente progressista, vagamente socialista, ma sostenitore dell’intervento in guerra, fanaticamente convinto che la sconfitta degli imperi centrali avrebbe provocato un rimescolamento dei rapporti sociali e favorito, quindi, l’emancipazione delle classi subalterne).

Il film è l’intreccio e la combinazione pregevole di questi diversi livelli di lettura di una storia, che trova però i suoi pilastri, i suoi fondamenti, nello spazio (Capri, luogo magico per antonomasia, per il suo paesaggio, per il clima, il sole, il mare, il cielo, la luce, la vegetazione, le rocce…) e nel tempo in cui si svolge, tempo così fortemente caratterizzato dall’idea di “rivoluzione”, come forse nessun altro mai.

Perciò Lucia è l’assoluta protagonista del film (interpretata da Marianna Fontana, un’attrice dal volto straordinariamente intenso, selvaggio e dolce, popolare e nobile: tale da sembrare estratto da un acquerello di Vincenzo Gemito).

Perché Lucia è figlia di Capri, della Capri tradizionale e conservatrice, ma allo stesso è capace di emanciparsi, dando una sua personale lettura e traduzione pratica della rivoluzione, che non saranno né quella del guru nordico pacifista-naturista, né quella del medico socialista scientista e interventista.

Lucia è capace di recuperare il rapporto primario con la madre. Che, in una delle scene finali, le dice “sapevo che saresti tornata” e, allo stesso tempo, “quando uscivi la notte, io ti vedevo, ma facevo finta di non vederti; quando uscivi la notte, ero un po’ anche io che uscivo con te”. E qui le due generazioni, rappresentate dalla madre e dalla figlia, sembrano trovare un punto di congiunzione.

Ma subito dopo la stessa Lucia prende il piroscafo e parte non si sa per dove, verso un luogo indefinito; in ogni caso, per viversi la sua libertà ed emancipazione, oramai definitivamente e saldamente conquistate.

Giovanni Lamagna