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Dare e ricevere in amore: leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati

Amare non è solo dare, donare delle cose all’altro, ma anche (e, forse, soprattutto) manifestargli il nostro desiderio di ricevere; che sta a dire: “tu mi manchi, tu sei importante per me”.

L’ho capito molto bene – confesso che non l’avevo mai capito finora così bene – leggendo questo passaggio del libro di Massimo Recalcati “ Le mani della madre” a pag. 51.

Recalcati, citando il suo maestro Lacan, afferma: “… amare è dare all’Altro quello che non si ha. Questo significa che il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede, ma dono di ciò che non abbiamo, di ciò che radicalmente manca a noi stessi.”.

Cosa vuol dire questa affermazione “il dono dell’amore… è… dono di ciò che non abbiamo”? A mio avviso, questo: che l’amore dice all’altro: io ho bisogno di te, tu mi manchi, io desidero il tuo amore, io ho bisogno del tuo amore.

Forse è esagerato affermare, come fa Recalcati,  che “il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede”. Con questa affermazione Recalcati si è lasciato forse prendere un po’ la mano e dall’enfasi del pensiero opposto.

A mio avviso in amore donare è anche dare ciò che si possiede o, meglio, ciò che si è.

E però l’amore non è solo questo. E, forse, non è manco innanzitutto questo.

E qui sta la grande originalità del pensiero di Lacan, ribadita molto bene, anche se a mio avviso in maniera un po’ unilaterale, dal suo allievo Recalcati.

La caratteristica principale dell’amore (sembrano dire sia Lacan che Recalcati) sta nel far sentire all’Altro tutta la sua importanza per me, nel fargli sentire la mia mancanza di lui/lei, nel dirgli/le e soprattutto fargli/le sentire “ senza di te io non sono la stessa cosa, mi manca qualcosa, che è proprio quello che mi dai tu”.

Questo si capisce molto bene nel rapporto madre-figlio/a. Il figlio non ha bisogno solo delle cure della madre. Il figlio ha bisogno anche (se non soprattutto) del riconoscimento della madre.

La madre deve saper dire al figlio (ovviamente non solo e non tanto con le parole, che un bimbo piccolo manco capirebbe, ma soprattutto con i gesti, lo sguardo, il sorriso, il tono della voce, la postura…) “ tu sei importante per me, tu hai cambiato il mio mondo, la mia vita, lo/a hai arricchito/a, io ti ho desiderato, voluto e adesso non potrei fare a meno di te.”.

Il bambino, insomma, anche un neonato, deve sentire che egli non solo riceve dalla mamma, ma che sta dando alla propria mamma; le sta dando il suo stesso essere, il fatto di esserci, sta restituendo alla madre in un certo senso la vita che lei le ha dato.

Amare, dunque, non è solo capacità di dare ma anche capacità di ricevere. Persino di ricevere da un bambino piccolo.

Il buon samaritano che dona le sue cure all’uomo incontrato sul ciglio della strada non dona soltanto, in maniera unilaterale. Ma riceve anche.

Il samaritano a sua volta riceve dall’uomo che sta assistendo: sta ricevendo la sua umanità, che è parte di lui (del samaritano).

Per questo l’atto d’amore non è mai un atto di sacrificio: io nell’atto d’amore non tolgo a me per dare all’altro. Nell’atto d’amore io do (anche) a me stesso nel momento in cui do all’altro.

E qui sta il fondamento più solido, per niente utopico (come molti lo ritengono), del comandamento cristiano dell’amore universale (e allo stesso del tutto particolare e individualizzato, come dice Recalcati: l’amore non è mai amore per l’Umanità, ma è sempre amore per il singolo uomo).

Quello che dice Recalcati è molto vero: l’amore astratto, universale, non avrebbe senso, se non si rivolgesse poi nei fatti ad una singola persona.

Ma è un po’ unilaterale. Perché è anche vero che io posso amare il singolo uomo solo in quanto riconosco in lui la mia stessa umanità, l’Umanità che ci accomuna.

© Giovanni Lamagna

Parola scritta e parola parlata

Prendo a prestito un pensiero di Fabrizio Coscia, che ho trovato nel suo libro “Eravamo soli” a pag. 205, per fare alcuni approfondimenti personali:

… qualsiasi testo scritto per qualcuno attende una risposta, e anche l’assenza di risposta è, di per sé, una risposta. Intanto io scrivo perché tu mi legga, e perché ti lasci penetrare adagio dalle mie parole, e perché possa amarmi ancora di più dopo aver letto. E mentre leggi, aspetto, in preda all’ansia.

Trovo stupendo questo pensiero: mi esprime perfettamente. Credo che renda meravigliosamente bene l’idea di cosa è la scrittura.

Innanzitutto dice (ed anche io lo penso) che nessuno scrive per se stesso; o, perlomeno, solo per se stesso.

Chi scrive lo fa sempre per qualcun altro/a. Fosse anche un/a perfetto/a sconosciuto/a. E attende, quindi, una risposta.

La scrittura perciò (come qualsiasi altra forma di comunicazione, ma la scrittura lo è in modo particolare) è sempre un atto d’amore.

E, come ogni atto d’amore, attende un riscontro.

L’amore che non riceve riscontro, che non è riamato, è, infatti, un amore impotente, un amore abortito, irrealizzato, ovviamente infelice.

E’ vero, poi, che, anche quando non c’è risposta, la risposta in realtà c’è stata lo stesso: è nei fatti un diniego, un rifiuto all’offerta d’amore da noi fatta, al canale di comunicazione, di contatto, da noi aperto.

La scrittura, inoltre, (al contrario della parola parlata, che si impone di per sé, ed è quindi in un certo senso un atto di violenza: l’altro è costretto ad ascoltarla anche se non vorrebbe) è uno strumento di comunicazione assolutamente nonviolento, direi perfino dolce: l’altro, infatti, può anche rifiutarsi di leggere quello che io gli ho scritto. Mentre non può fare a meno di ascoltare la parola parlata che gli rivolgo: dovrebbe solo turarsi le orecchie o allontanarsi dalla mia presenza.

La scrittura, infine, è un mezzo di comunicazione lento. Al contrario della parola parlata che è, invece, un mezzo di comunicazione veloce.

Lo è in un duplice senso: sia perché scrivere richiede più tempo che parlare; sia perché leggere richiede (di solito) più tempo che ascoltare.

Sulla parola ascoltata, infatti, non possiamo ritornare più: o ci è entrata dentro o ci è sfuggita per sempre; per recuperarla dobbiamo chiedere che essa venga ripetuta; e non sempre l’altro è disposto a ripeterla.

Sulla parola scritta, invece, noi possiamo tornare e ritornare più volte, tutte le volte che vogliamo. Possiamo quindi consentire che essa ci penetri lentamente, dolcemente, quasi come in un amplesso tantrico.

Tra lo scrittore e il lettore consenziente viene quindi a stabilirsi un vero rapporto d’amore, oserei dire addirittura erotico, tanto più intenso quanto più la lettura è lenta, ripetuta, profonda.

Ovviamente chi scrive, al momento in cui scrive, non ha alcuna certezza che tutto questo avvenga, così come l’amante che va all’incontro con la persona amata non ha alcuna certezza che l’incontro vada a buon fine.

Per cui è naturale che una certa, buona, quota d’ansia sia presente in chi scrive, nel momento in cui indirizza al suo ipotetico lettore la sua pagina scritta.

Ansia che verrà placata (in tutto o in parte) solo nel momento in cui lo scrittore riceverà una risposta (qualsiasi essa sia; meglio, ovviamente, se di condivisione e gradimento) dal suo lettore.

Giovanni Lamagna