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La povertà spirituale secondo Gesù.

La povertà di cui parla Gesù, indicandola come virtù basica del proprio insegnamento (“Beati i poveri per lo spirito, perché di essi è il regno dei cieli”; Matteo 5, 3) non è da intendersi, a mio avviso, come la condizione di miseria della povertà materiale ed estrema.

Ma è piuttosto una condizione spirituale.

E’ il distacco dai beni materiali, da tutto ciò che si possiede.

E’, quindi, una scelta, più che un destino avuto in cattiva sorte.

Questa povertà spirituale è, perciò, compatibile con un certo possesso di beni materiali, di quelli necessari per vivere una vita dignitosa, cioè sufficientemente agiata e, quindi, sufficientemente piacevole.

Non è compatibile, invece, (sempre a mio avviso) con una vita di lussi e di sfarzi.

Si può ipotizzare, infatti, che un uomo possa essere spiritualmente distaccato dai beni che gli sono necessari per vivere una vita dignitosa, dagli agi e dai piaceri sufficienti a rendergli la vita abbastanza comoda e gradevole.

Non è immaginabile che lo possa essere, invece, quando vive nel lusso, nello sfarzo, nell’ostentazione dei beni materiali, la cui proprietà vada molto oltre la soddisfazione dei suoi bisogni fondamentali e di alcuni desideri non solo comuni alla maggioranza dei suoi simili, ma anche soddisfatti dalla maggioranza di loro.

In questi casi è inevitabile una qualche forma di dipendenza psicologica dai beni materiali, che rende impossibile pertanto la povertà spirituale, che contrasta (mi verrebbe da dire strutturalmente, fisiologicamente) con essa.

D’altra parte, se non fosse così, Gesù, al giovane ricco che gli chiede come fare per conquistare la vita eterna, non avrebbe risposto: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri.” (Matteo; 19, 21)

E non avrebbe detto ai discepoli: “Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli.” (Matteo; 19; 23 – 24).

Un’ultima domanda (con tentativo di risposta) in coda a questa breve riflessione: è utile, può servire a qualcosa il concetto di “povertà spirituale” anche per chi ha una cultura laica, anche per chi non ha fede nell’esistenza di una divinità salvatrice e di una vita ultraterrena?

Io ritengo di sì. Ritengo, infatti, che la virtù della cosiddetta “povertà spirituale”, intesa non come totale privazione di beni materiali, ma come distacco da essi, abbia una valore universale, condivisibile quindi anche da coloro che si professano agnostici o, addirittura, atei.

Il distacco dai beni materiali, infatti, ci consente di dare la giusta priorità, ai valori di natura spirituale, in primo luogo a quelli legati alla cultura, al sapere, e a quelli legati alle relazioni (di solidarietà, empatia, compassione, fraternità…) con gli altri esseri umani.

Ecco perché ritengo che questa piccola riflessione possa risultare utile sia ai credenti in Dio che a coloro (tra i quali mi metto anch’io) che credenti non sono; o, meglio, non credono in Dio, ma credono in tante altre cose, a cominciare dai valori che fanno l’uomo tale.

Giovanni Lamagna