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Sulla “stagnazione melanconica del lutto”.

La “stagnazione melanconica del lutto” – di cui parla Massimo Recalcati a pag. 46 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli) – è, a mio avviso, una (quasi) diagnosi, il sintomo patologico acclarato in una persona di un insufficiente, carente, “amore per la vita”.

Quell’amore di cui ognuno di noi nasce dotato, in una misura più o meno adeguata, che potremmo identificare con l’istinto di sopravvivenza; o, meglio, con la “volontà di vivere”, di cui parlava Schopenhauer.

Nella persona incapace di elaborare un lutto in tempi ragionevoli si fronteggiano, competono, confliggono “l’amore per la vita” e “l’amore per la morte”: dell’esistenza di questi due amori ci ha parlato l’ultimo Freud, che li considerava e chiamava addirittura “istinti”.

In questo tipo di persona l’amore per la vita non riesce ad averla vinta sull’amore per la morte.

Il secondo blocca il fluire normale, l’affermarsi del primo, lo neutralizza e, talvolta, vince, prevale sul primo.

In tal caso il soggetto afflitto da un lutto irrisolto imbocca una strada di regressione che gli intossica l’esistenza sul piano psichico; non solo; talvolta può rovinargli persino la salute fisica.

Da cosa è causata una simile dinamica, cosa spiega una tale deriva spirituale ed umana?

Provo a dare una risposta, in base a ciò che ho spesso osservato in persone afflitte da tali problematiche.

Il soggetto di cui stiamo qui parlando non può accettare in buona sostanza che l’altro sia morto e che lui sia, invece, ancora vivo; si sente in colpa per questo e, quindi, bisognoso di espiare; espiare vuol dire morire in qualche modo con l’altro, assieme a lui.

Lo stesso fenomeno (anche se in forme più blande e meno tragiche) può verificarsi anche di fronte alla “semplice” sofferenza (quindi non la morte) dell’altro.

In questo caso il soggetto predisposto alla “stagnazione malinconica del lutto” non può accettare che la sua vita goda dei piaceri e delle gioie che una vita normalmente (salvo rari casi eccezionali) è in grado di donare.

Allora deve fare in modo di angustiarsi, di rovinarsi l’esistenza – anche quando non ce ne sarebbero le ragioni personali oggettive – per poter condividere il dolore, il patire dell’altro.

Sarebbe, infatti, per lui insostenibile stare bene o anche solo non stare male mentre l’altro sta male e soffre; se ne sentirebbe insopportabilmente in colpa.

Colpa che può essere lenita, in qualche misura, solo dalla sofferenza propria, dalla condivisione sulla propria pelle della sofferenza dell’altro.

Quasi a conferma dell’antico proverbio, che, come tutti i proverbi, una qualche verità la dice: mal comune è mezzo gaudio.

© Giovanni Lamagna