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L’essenza della filosofia.

Martin Heidegger, in “Introduzione alla metafisica” (1935), così scrive: “L’essenza della filosofia non è di rendere le cose più facili e leggere, ma al contrario di renderle più difficili e pesanti. E questo, non a caso: infatti il suo modo di comunicare appare inconcepibile e addirittura pazzesco per il senso comune. Il compito autentico della filosofia consiste in realtà piuttosto nell’appesantimento dell’esserci storico e, in ultima analisi, dell’essere stesso. L’appesantimento conferisce alle cose, all’ente, il loro peso (d’essere). E questo perché? Perché l’appesantimento costituisce una delle condizioni fondamentali, essenziali, per la nascita di tutto ciò che è grande: in primo luogo il destino di un popolo storico e delle sue opere. Destino, però, c’è solo là dove un vero sapere sulle cose domina l’esistenza. Le vie e le prospettive di un tale sapere sono aperte dalla filosofia

Dico subito, in premessa, che questo testo heideggeriano ha suscitato in me, appena l’ho letto, un istintivo, immediato, moto di dissenso, quasi da riflesso condizionato.

L’ho poi letto e riletto più volte e credo di aver compreso lo spirito e l’intenzione da cui è partito l’autore e cosa egli intendeva dire.

Pur tuttavia continuo a non condividerne quantomeno la forma e il linguaggio: le stesse tesi io le avrei espresse come minimo in una forma diversa.

Qui di seguito proverò ad argomentare i punti su cui dissento e a indicare quelli su cui consento.

1.Certo, la filosofia non deve rendere facili e leggere le cose che sono oggettivamente difficili e pesanti! Ma, a mio modesto avviso, non deve neanche renderle più difficili e pesanti, come sostiene qui Heidegger; non capisco perché dovrebbe farlo.

Per una forma di snobismo o addirittura di sadismo, verso coloro che non hanno (ancora) gli strumenti per affrontare argomenti complessi? Per tenere lontani dalla filosofia i non addetti ai lavori?

Se fosse così (ed in alcuni casi, ad esempio, quello della maggior parte dei filosofi accademici, dei filosofi delle Università, mi pare che lo sia) riterrei tale atteggiamento del tutto insipiente, perché contrario al vero, originario, spirito della filosofia; quello, ad esempio, del primo grande filosofo della storia della filosofia, un certo Socrate.

2. Compito della filosofia è, semmai, quello di rendere semplici (che non equivale affatto a semplicistiche o banali) le questioni complesse, di renderle comprensibili non dico a tutti ma almeno ai più, anche a quelli che non fanno i filosofi di professione.

La filosofia, d’altronde, non è innanzitutto ed essenzialmente una professione; la filosofia è, prima di tutto e nella sua essenza, un’attitudine dello spirito, che tutti, chi più e chi meno, posseggono, almeno allo stato potenziale.

E su questa attitudine può e secondo me deve (o, meglio, dovrebbe) far leva chi per scelta di vita, prima ancora che professionale, ha deciso di dedicarsi a questa disciplina, che per me è pratica esistenziale, spirituale, prima che intellettuale.

3. L’appesantimento, infine, non è per me un valore aggiunto delle cose, degli enti, come sembra esserlo per Heidegger; perché le cose, gli enti hanno, invece, un valore in sé, a prescindere dal loro peso.

Vale, infatti, di più un bambino appena nato, un adolescente, un uomo maturo o un vecchio? Chi può dirlo e in base a quale spiegazione?

A meno che per appesantimento non intendiamo qualcosa che non si dà come scontato, come ovvio, ma che esige un lavorio, che è il risultato di una ricerca, a volte faticosa, talvolta addirittura travagliata.

Se per filosofia intendiamo un pensiero che non si accontenta della doxa, ovverossia dell’opinione corrente, ma che ha dovuto mettere in moto un pensiero riflessivo, critico, elaborato, faticoso, allora sono d’accordo: la filosofia esige la pesantezza.

Una pesantezza che, però, non è sinonimo di oscurità e nemmeno il contrario della leggerezza correttamente intesa; la leggerezza alla Italo Calvino, tanto per intenderci.

Perché, anzi, la filosofia, a mio avviso, dovrebbe aborrire il pensiero contorto e oscuro, per dare luce, luminosità a ciò che è buio, avvolto nelle tenebre.

E non solo – ripeto – per i pochi addetti ai lavori, per i cosiddetti professionisti della materia.

Ma per tutti coloro che hanno voglia e desiderio di scoprire la verità delle cose, che, in altre parole, per restare all’etimo, hanno “amore per la sapienza” (φιλεῖν (phileîn), “amare”, e σοφία (sophía).

© Giovanni Lamagna

Superficialità, profondità e leggerezza.

16 agosto 2015

Superficialità, profondità e leggerezza.

Un amico mi pone la domanda: “La superficialità è sempre un difetto?” Provo a rispondere, perché mi pare una domanda molto intrigante.

Sì, per me la superficialità è sempre un difetto.

La superficialità, infatti, almeno nel senso letterale del termine, è il modo di essere di chi vive alla superficie delle cose, che è indubbiamente un aspetto della realtà (come la buccia della mela è una parte della mela), ma non è né l’unica né tutta la realtà (così come la buccia della mela non è tutta la mela).

Ora chi vive alla superficie delle cose (nel senso che vive alla giornata, così come viene, senza mai porsi domande sul senso delle cose, senza mai problematizzare la realtà: e ci sono persone che vivono così; non si tratta di giudicarle, si tratta di guardarle per come sono) si impedisce di conoscere la realtà nella sua complessità.

Ovviamente può farlo. E’ liberissimo di farlo. Non ci sarà nessun Dio che lo condannerà per questo. Né alcuno di noi, che non si riconosce in questo atteggiamento, avrà titolo a farlo.

Però si perderà molte delle cose buone e belle della vita. Per restare nella metafora, si accontenterà di mangiare solo la buccia della mela, senza mangiare tutta la mela.

E lo farà il più delle volte senza esserne cosciente. Perché questa è una delle caratteristiche della persona superficiale: che non è mai pienamente consapevole di sé e di quanto lo circonda. Vive come se fosse addormentata o in uno stato di semi-veglia.

Altra cosa è la leggerezza. Che è una caratteristica del tutto diversa dalla superficialità, anche se spesso (ma erroneamente) viene accostata o, addirittura, assimilata alla superficialità.

La leggerezza, infatti, è perfettamente compatibile con la profondità, che è invece l’opposto, l’antitesi della superficialità.

La leggerezza è il contrario della pesantezza (cioè della verbosità, della prolissità, della noiosità, dell’intellettualismo, dell’eccesso di razionalismo, dell’accademismo…) non della profondità (nelle sue varie forme: emotiva, affettiva, sentimentale, intellettuale, spirituale…).

Infatti, si può essere profondi e leggeri, pensosi e leggeri, seri e leggeri, addirittura tristi, addolorati e leggeri. Si può avere il senso del tragico e viverlo con leggerezza. Come ci spiega molto bene Italo Calvino nella prima delle sue “Lezioni americane”.

Mentre chi è superficiale non è leggero; è semplicemente frivolo, futile, banale, ripetitivo; e, in buona sostanza, noioso; spesso è narcisista, egocentrico, talvolta perfino egoista e cinico.

La superficialità è, dunque, per me sempre e comunque un difetto.

La leggerezza è, invece, all’opposto una vera e propria virtù. E beato chi la possiede!

Che si esprime, ad esempio, nell’allegria, nel senso dell’humor (che, come ci ricorda sempre Calvino, è altra cosa dalla comicità), nel senso della misura e delle proporzioni.

Purtroppo, non tutte le persone (pur magari dotate di altre qualità importanti, come la serietà, la cultura, la profondità…) ne sono dotate. E non si tratta di una piccola mancanza!

Per finire: non si può mettere a mio avviso (come invece alcuni sostengono) la superficialità sullo stesso piano della profondità (quasi fossero interscambiabili) e fare (per così dire) di tutte le erbe un fascio.

Infatti, chi va in profondità deve passare per forza di cose per la superficie; mentre non vale l’opposto.

Quando vado a mare, io posso farmi un bagno mantenendomi semplicemente alla superficie, senza scendere sott’acqua, né di poco né in profondità. Chi decide invece di immergersi in profondità deve per forza di cose passare per la superficie del mare.

Ovviamente io sono libero di fare la prima cosa senza fare la seconda. Ma mi perderò la seconda. Mentre chi farà la seconda godrà anche della prima.

Le due scelte, quindi, (a me pare, con tutta evidenza) non possono essere messe sullo stesso piano.

Giovanni Lamagna