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Perché è così difficile comprendersi, comunicare?

Nessuno di noi parla esattamente la stessa lingua degli altri.

Anche quando siamo accomunati dalla stessa patria, città e persino paese o quartiere.

Se, infatti, la lingua è espressione di un modo di guardare la realtà, il mondo, siccome nessuno guarda la realtà, il mondo, esattamente allo stesso modo dell’altro/degli altri, nessuno allora parlerà esattamente la stessa lingua dell’altro/degli altri.

Per fare un esempio, quello più macroscopico e persino banale: di certo la persona ignorante, nel senso di poco o per nulla istruita, non parla la stessa lingua della persona colta.

E, infatti, spesso la persona ignorante non capisce quello che l’uomo colto dice, come se questi parlasse una lingua straniera, diversa dalla sua.

Per fare un altro esempio, un po’ più sofisticato e meno vistoso: chi è abituato a frequentare se stesso vede e sente cose che chi non è abituato a farlo manco si rende conto che esistono.

Di conseguenza i due parleranno lingue completamente diverse, anche se useranno un lessico, una ortografia, una grammatica e una sintassi simili.

Da qui deriva un dato che è sotto gli occhi di tutti noi: la babele delle lingue, la grande difficoltà a comunicare, a intendersi, a comprendersi gli uni cogli altri.

© Giovanni Lamagna

Gesù in mezzo

18 marzo 2015
Gesù in mezzo.
“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro” (Matteo, 18, 20).
Cosa vuol dire l’espressione “io sono in mezzo a loro”?
Chi è Gesù che sarà presente in mezzo ai suoi discepoli, pur senza essere presente fisicamente?
La prima parola che mi viene in mente è “gioia”. Poi l’espressione “pienezza di vita”. Poi la parola “realizzazione”. E poi “appagamento”.
Gesù per i suoi discepoli, quando era in vita, era tutto questo: ciò per cui ha senso la vita, ciò che dà sapore alla vita; anche a una vita semplice, povera, com’era quella dei suoi discepoli.
Ma in questa frase del Vangelo c’è qualcosa in più di questo. Gesù promette ai suoi discepoli che egli starà in mezzo a loro (evidentemente in una forma spirituale), anche quando non ci sarà più fisicamente.
A condizione di… A una condizione. Alla condizione che essi si ritrovino nel suo nome. Che siano cioè capaci di riprodurre la stessa situazione interiore e relazionale, insomma spirituale, di quando lui era presente materialmente, fisicamente.
A condizione che ciascuno di loro continui a vivere come se egli fosse ancora vivo, cioè rapportandosi ancora a lui, cioè praticando le cose che egli aveva loro insegnato, nel rispetto, nell’ascolto nell’amore verso gli altri.
Appunto: nel suo nome!
Quando il fine, la meta, il cammino è comune a due o più, questo fine, questa meta, questo cammino si materializzano in una persona, in una presenza tra loro.
E questa presenza (del tutto spirituale, ovviamente; ma non meno reale) dona loro la stessa gioia, la stessa pienezza, lo stesso senso di appagamento, che essa dava quando era fisica, materiale, corporea.
Ovviamente questa esperienza vale anche in senso contrario e ne costituisce un’ulteriore verifica sperimentale.
Sia detto per inciso: nel linguaggio scientifico questa procedura viene definita “criterio di falsificabilità di una teoria”.
Quando le persone che stanno insieme vivono per fini e scopi diversi, hanno mete diverse, camminano spiritualmente in direzioni diverse, a volte addirittura opposte, tra loro regnano inevitabilmente la confusione (se non la babele) delle lingue, la incomunicabilità, la disarmonia, spesso il mugugno o il silenzio, la distanza o il conflitto; e, quindi, l’assenza di gioia, di appagamento, di pienezza di vita.
Si potrebbe dire, con il linguaggio del Vangelo: tra loro non c’è Gesù in mezzo.
Giovanni Lamagna