Sul concetto di “natura umana”.

29 marzo 2016

Sul concetto di “natura umana”.

Comincio col pormi una domanda che mette alla radice in discussione la fondatezza stessa del concetto: “Esiste una “natura umana”?” Una domanda di quelle che hanno attraversato e segnato la storia del pensiero. A cui hanno tentato di dare una risposta innanzitutto la filosofia. Poi le varie scienze naturali e il diritto. Infine l’antropologia, come scienza moderna tra le più recenti.

Il diritto più antico ha dato ad essa una risposta decisamente positiva, tanto è vero che in questo campo per secoli ha avuto egemonia teorica il cosiddetto “giusnaturalismo”, ovverossia una concezione del diritto che aveva la pretesa di ricavare, dedurre le norme giuridiche da ciò che veniva considerato naturale o, quantomeno, conforme alla natura.

Il giusnaturalismo dava per scontato, quindi, che esistesse una realtà che si potesse definire “natura”, cioè un qualcosa di ipostatizzato, di sostanzialmente immutabile ed eterno, al quale si dovessero conformare in primo luogo l’etica (come norma interiore) e poi il diritto positivo (come norma esteriore, codificata nelle leggi di una determinata comunità o società).

Una posizione più o meno simile ha avuto e mantenuto per secoli il pensiero filosofico, di cui in fondo quello giuridico era una branca ed una emanazione.

Probabilmente questa concezione della natura si fondava e giustificava in un contesto culturale piuttosto ristretto, limitato geograficamente, e, tutto sommato, piuttosto omogeneo: quello greco/ebraico/romano/cristiano.

Essa è entrata in crisi nel momento in cui il mondo ha cominciato (e sempre più) a diventare multicentrico, quindi multiculturale.

E’ emerso, allora, con sempre maggiore evidenza che il concetto di “natura” era culturalmente, quindi antropologicamente condizionato. In differenti condizioni economiche, sociali, geografiche, storiche, quindi culturali, esso mutava. E spesso in maniera profonda, significativa, tanto da renderlo piuttosto evanescente e del tutto discutibile come dato universale, oltre che statico e immutabile.

La filosofia moderna, oltre che le scienze, in primis l’antropologia, hanno dovuto registrare questo dato, questa mutazione.

Tanto è vero che oggi è difficile trovare qualche pensatore, che continui a parlare (per restare nel solo campo del diritto) di giusnaturalismo.

Questo che cosa vuol dire? Che tutto – oggi – è da considerare relativo? Che è impossibile rintracciare degli “universalia” nella condizione umana, intesa come l’insieme delle caratteristiche fisiche, psichiche, sociali e culturali dell’uomo? Che quindi è inutile provarci? Che è meglio rinunciarci? Che è meglio accontentarsi di descrivere determinate condizioni di vita prevalenti in determinati contesti storici e geografici, senza nessuna pretesa di trovare in essi dei denominatori (anche minimi) comuni? Bisogna rinunciare quindi a definire l’umanità come specie, in quanto esisterebbero solo i singoli individui (o tutt’al più le singole società, come aggregati numericamente delimitati e circoscritti storicamente e geograficamente) ognuno con la sua individualità e la sua specificità, irriducibili a quelle di tutti gli altri?

Alcuni pensatori (pochi, a quanto ne so io) a queste domande rispondono affermativamente e in maniera drastica. Sono coloro che si fanno portatori di un relativismo estremo, assoluto.

Io non condivido questo pensiero. Penso che, nonostante tutte le differenze esistenti tra le varie culture (e, addirittura, tra i diversi individui) sia possibile rintracciare tra di esse delle costanti, delle affinità, che, seppure non riescono (forse) a fondare scientificamente (e manco filosoficamente) il concetto di “natura umana”, perlomeno vi alludono, come realtà flessibile, plastica quanto vogliamo, ma non del tutto insussistente o inesistente.

Se non ci fosse, infatti, un quid che accomuna le diverse culture e società (pur nella estrema varietà che le caratterizza nei diversi contesti storici e geografici) e, perfino, tra i singoli individui che formano le varie culture e società, se non ci fosse un “logos” in qualche modo affine, non sarebbe possibile alcun “dia-logos”, non sarebbe possibile, quindi, alcuna convivenza, alcuna convivialità, alcuna familiarità, alcuna “civile conversazione” (come avrebbe detto Bruno) tra gli uomini.

Questi sarebbero condannati a vivere come vasi non comunicanti tra loro, come monadi chiuse nel loro silenzio, incapaci di aprirsi e di entrare in contatto gli uni con gli altri. Realtà che la nostra esperienza sembra contraddire con tutta evidenza, anche quando il dialogo con gli altri si fa duro, difficile, anche quando (come a volte, anzi spesso, capita) il dialogo si trasforma in aperto conflitto.

Giovanni Lamagna

Pubblicato il 29 marzo 2016, in antropologia, Filosofia, morale, Psicologia, scienza, società, storia con tag , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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