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Otium ac negotium

Aristotele – come del resto faranno poi anche i Romani qualche secolo più tardi – divide il tempo in due categorie: il tempo della scholé, cioè il tempo del riposo, della pace, della quiete spirituale: il tempo cosiddetto libero; e il tempo dell’a-scholia, cioè il tempo del lavoro, dell’in-quietudine, della necessità.

I Romani chiameranno il primo otium e il secondo negotium (nec-otium).

Sia i Greci che i Romani davano quindi un evidente primato alla scholé e all’otium, cioè al tempo libero, considerato non come il tempo in cui si sta senza far niente (l’otium non è il tempo della pigrizia e del riposo assoluto, dell’in-azione e dell’inerzia), ma come il tempo della vera azione, cioè delle azioni creative; soprattutto come il tempo della contempla-azione.

Il lavoro, cioè l’insieme delle attività imposte all’uomo dal bisogno, dalla necessità della sopra-vivenza, è la negazione dell’otium. Perciò il lavoro viene definito con un termine negativo, nec-otium, cioè il tempo in cui non è possibile svolgere azioni veramente creative, ma solo azioni imposte dalla necessità, e, quindi, non è possibile realizzare la propria creatività.

Un lavoro che fosse creativo, in cui l’uomo fosse pienamente libero e realizzasse pienamente se stesso, secondo questa ottica, non andrebbe quindi considerato manco un vero lavoro, ma sarebbe un’attività pienamente rientrante nella scholè greca e nell’otium latino.

Da questo punto di vista il lavoro degli artisti (il primo nome che mi viene in mente è quello di Federico Fellini, che viveva il suo “fare cinema” come un gioco, quasi bambinesco, o come la realizzazione, messa in scena, dei suoi sogni) e quello dei filosofi (penso, non a caso, ad Aristotele) non è un vero lavoro, perché è un’attività di natura puramente creativa, potremmo dire quasi ludica.

Non è dunque negotium, ma, a pieno titolo, otium.

Gli antichi greci e romani, come abbiamo visto, almeno in certe fasce sociali, davano nettamente il primato al tempo libero e alle attività creative rispetto a quello occupato dal lavoro e dalle attività necessitate.

Noi moderni e contemporanei abbiamo completamente rovesciato il loro paradigma culturale. E’ il cosiddetto “progresso” ad avercelo imposto. Ma, in realtà, dovremmo chiederci: ci abbiamo guadagnato in termini di ben-essere collettivo ed esistenziale?

Eppure oggi, ancora più di ieri, grazie all’enorme progresso tecnologico, si potrebbe dedicare molto più tempo all’otium che al negotium.

Cosa ci impedisce, allora, di tornare al buono e sano modus vivendi degli antichi greci e romani (ripeto: almeno di certe classi sociali)?

Certo, quello che una volta avremmo chiamato lo “sfruttamento di classe” del capitale, il quale oggi pretende che lavoriamo anche nelle “feste comandate” e in età sempre più avanzata.

Ma, forse, anche una sorta di “servitù volontaria” da parte di noi lavoratori, servitù che ci impone di aderire all’egemonia culturale del “padrone” e che ce la fa sembrare senza alternative, anzi addirittura il “miglior mondo possibile”.

Ho sentito con le mie orecchie lavoratori dichiararsi felici di lavorare anche la domenica, perché si considerano già fortunati ad avere un lavoro, laddove tantissimi potenziali lavoratori oggi il lavoro non ce l’hanno e sono costretti a vivere un “ozio” che non si può certo definire creativo.

Assurdo degli assurdi, paradosso dei paradossi, delle società contemporanee: milioni di lavoratori occupati anche nelle feste comandate o negli straordinari e (quasi) altrettanti milioni di lavoratori disoccupati, costretti ad un’inattività totale e non desiderata!

Giovanni Lamagna

Recensione del libro “Il profumo del tempo” di Byung – Chul Han.

Il libro di Byung – Chul Han “Il profumo del tempo” (editore Vita e Pensiero) è una interessante e utile meditazione su ciò che è diventato il tempo per l’uomo a partire dalla modernità fino alla nostra contemporaneità.

In modo particolare sull’accelerazione che esso ha via, via subito in maniera sempre più vistosa, anche per l’invenzione di macchine che hanno sostituito sempre più l’azione dell’uomo, rendendola sempre più veloce, fino a dettarne i tempi.

Fino a che, come è diventato manifesto ai nostri giorni, non è più l’uomo padrone del suo tempo, ma è il tempo che si impone all’uomo come suo padrone, che costringe l’uomo ad andare ai suoi ritmi sempre più vorticosi.

Questa velocizzazione del tempo va di pari passo con una perdita di senso e di valore: del tempo stesso, ma anche dell’intera esistenza e delle cose di cui l’uomo viene in possesso.

Qui Byung-Chul Han fa una interessante analisi, a partire dalla domanda: è l’accelerazione sfrenata del tempo che porta alla perdita di senso e valore o è questa seconda che causa la prima?

Per Byung-Chul Han è la perdita del senso dell’esistenza che innesca un processo di velocizzazione estrema, quasi che l’uomo, smarrito (di fronte alla scomparsa, anzi alla morte stessa di Dio) e senza ragioni assolute (nel senso di metafisiche) per vivere, volesse stordirsi, ubriacarsi per continuare a vivere.

Io credo che questa tesi sia francamente esagerata: penso piuttosto che l’un fattore provochi l’altro e viceversa e che entrambi si rafforzino a vicenda.

Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte di Dio provoca la sua esigenza di ubriacatura e velocizzazione estrema dell’esistenza.

Ma questa, a sua volta, rende impossibile all’uomo, incapace di fermarsi e di “indugiare sulle cose” (per usare un’espressione di Byung-Chul Han), di trovare un senso nelle cose.

Nella sua riflessione/meditazione Byug-Chul Han incontra molti pensatori e si confronta con loro. In modo particolare Aristotele, Agostino, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino, Marx, Heidegger, Proust, Arendt, Bauman.

Particolarmente interessante trovo la polemica che egli sviluppa con Marx e la Arendt a proposito di vita attiva e vita contemplativa, di homo laborans e homo meditans.

Come sappiamo, la Arendt esalta la vita attiva rispetto alla vita contemplativa, così come Marx esaltò l’homo laborans in quanto creatore di se stesso.

Per contro Byung-Chul Han afferma la necessità di una vita contemplativa che si affianchi alla vita attiva (tesi a suo tempo già sostenuta da Gregorio Magno) e sia capace di darle senso e significato.

La frase che ne riassume il pensiero mi sembra la seguente: “La vita contemplativa senza azione è cieca. La vita activa senza contemplazione è vuota” (pag, 129)

A Marx Byung-Chul Han contesta l’unilateralità del suo concetto di liberazione del lavoratore. Pe Marx la liberazione del lavoratore sembra consistere essenzialmente (se non proprio esclusivamente) nella riappropriazione del prodotto del suo lavoro. E, quindi, nella sua emancipazione dallo sfruttamento del capitalista.

Per Byung-Chul Han la liberazione dell’homo laborans non può consistere solo in quello che sosteneva Marx. Perché il lavoratore, una volta liberatosi dal giogo capitalista, corre il rischio di diventare schiavo del suo stesso lavoro (oltre che del prodotto del suo lavoro, in quanto consumatore acritico).

Per Byun-Chul Han ci sarà vera e piena liberazione dell’homo laborans quando egli sarà capace di recuperare la dimensione della scholé (tempo libero, contrapposto all’a-scolia, cioè il tempo occupato dal lavoro)e del bios theoretikos di Aristotele; e quella dell’otium (contrapposto al negotium, cioè il  nec-otium) degli antichi romani.

Quando l’otium non sarà più inteso come una semplice pausa/riposo rispetto all’attività ritenuta anche da Marx fondamentale e centrale del lavoro (che detta anche i tempi dell’intera esistenza dell’uomo), ma sarà, anzi, l’attività principale, quella che lo rende propriamente uomo, in quanto tempo dedicato alla sua attività più specificamente umana: quella teorica, del pensiero, della contemplatio veritatis.

Giovanni Lamagna