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Che cosa intendiamo con la parola “essere”?

In “Introduzione alla metafisica” (1935; ed. 1953) Martin Heidegger si chiede:

Che cosa intendiamo con la parola essere, l’essere? Tentare di rispondere significa trovarci subito in imbarazzo. E’ un voler cogliere l’inafferrabile. Con tutto ciò, noi siamo continuamente attratti dall’ente, inseriti in esso, portati a considerare noi stessi come degli enti. L’essere, per ora, non è per noi che un semplice vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che cerchiamo almeno d’impadronirci di quest’ultimo resto rimasto in nostro possesso. Chiediamo pertanto: che ne è della parola essere?

A queste domande io ho una sola risposta: il piano degli enti (ontico) non può essere indubbiamente confuso con quello dell’essere (ontologico); e su questo sarebbe stato certamente d’accordo anche Heidegger, che ha fatto più volte questa distinzione, anzi è partito proprio da essa per avviare la sua ricerca attorno all’Essere.

Il motivo per cui non li confondo io è però diverso da quello per il quale – a me pare – li distingue Heidegger.

Per me non vanno confusi perché gli enti si situano nel mondo reale, della materialità, di ciò che è percepibile con i sensi: il piano dei fenomeni; l’essere, invece, si situa sul piano delle categorie astratte del pensiero, è una categoria puramente logica, gnoseologica: è il “quid” che accomuna astrattamente gli enti.

Da questo punto di vista, è vero – ed in questo concordo con Heidegger – che l’essere è “l’inafferrabile”, si potrebbe anche dire l’innominabile; è ciò che Kant aveva definito col termine “noumeno”, cioè un’essenza pensabile ma non percepibile coi sensi.

Ed è quindi naturale, direi ovvio, che noi siamo attratti innanzitutto dagli enti, coi quali la nostra vita concreta, la nostra esistenza, il nostro “esserci nel mondo” – a voler usare un’espressione inventata proprio da Heidegger – fa i conti tutti i giorni, anzi momento per momento.

Ed è vero pure che l’essere si riduce, dunque, ad essere un vocabolo: un vocabolo che esprime una realtà astratta, concettuale, non materiale, e, quindi, inafferrabile, di cui si può dire ben poco, anzi niente.

Per cui reputo del tutto velleitario il tentativo di Heidegger di volersi impadronire di questo vocabolo e di volersi cimentare con la domanda “cosa ne è di esso”?

Ritengo molto più realistica (e quindi saggia) la celebre affermazione di Wittgstein, “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, l’ultima delle sette proposizioni principali del suo “Tractatus logico-philosophicus”.

E’ questo nichilismo, come sembra dedurne Heidegger, quando scrive, sempre in “Introduzione alla metafisica”: “Nella dimenticanza dell’essere, promuovere solo l’ente, questo è nichilismo”?

Io non sono d’accordo con una tale conclusione. L’esito nichilista non è per me affatto scontato, né sul piano della filosofia teoretica, né su quello della filosofia morale.

Non è scontato sul piano della filosofia teoretica, perché qui non si tratta di negare e manco di dimenticare l’essere; si tratta semplicemente, come aveva già fatto Kant con mirabile chiarezza, di riconoscergli il ruolo che gli spetta, né di più né di meno: l’essere è solo un concetto, quindi è pensabile, se ne può addirittura ipotizzare l’esistenza come realtà assoluta, la cosiddetta “realtà in sé”, ma non può essere da noi investigato e conosciuto come si investigano e conoscono le altre realtà esistenti, dal momento che il nostro pensiero non può prescindere (e su questo Kant per me ha detto parole definitive) dalle categorie di “spazio” e “tempo”, che non possono essere applicate ad una “realtà” che si ipotizza “ essere” fuori del tempo e dello spazio.

Non è scontato sul piano della filosofia morale, perché la negazione (almeno sul piano della dimostrabilità teoretica) dell’orizzonte metafisico non comporta agli occhi dell’uomo né l’automatica “morte di Dio”, come aveva sostenuto Nietzsche, (chi crede in Dio non lo fa come esito di un processo conoscitivo, ma in base ad un atto di fede, quindi di “grazia ricevuta”; almeno lui così la vive e la racconta), né comporta, tantomeno, l’assoluto relativismo morale (“Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”), come Dostoevskij fa dire ad Ivan Karamazov; perché le regole morali che l’uomo si dà sono sempre il frutto di una sua scelta libera, autonoma e non di una imposizione calata dall’alto; anche quando le facesse derivare dalla volontà di un Dio.

© Giovanni Lamagna