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Il talento e la scrittura.

Qualche tempo fa una mia amica ha postato sulla mia pagina facebook il seguente testo di David Foster Wallace, che desidero commentare:

“Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo.

Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo.

Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando.

Che ama e basta, forse.

Il talento è solo uno strumento.

È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive.

Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Ha qualcosa a che fare con l’amore.

Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.”

Questo testo è bellissimo! Mi ci riconosco molto.

La prima affermazione che mi trova concorde: la scrittura è un gioco, va vissuta come un gioco. Come a dire: chi non la vive come un gioco non è un vero scrittore.

La seconda affermazione che mi trova concorde: nemici della scrittura sono l’insicurezza, la vanità e l’egocentrismo.

L’insicurezza si capisce bene perché è nemica della scrittura. Chi è insicuro di quello che scrive o, meglio, chi non ha un minimo di sfrontatezza nel mettere nero su bianco e farlo leggere agli altri non sarà mai uno scrittore.

Può sembrare, invece, che la vanità e perfino l’egocentrismo siano addirittura necessari per scrivere. E invece… Non lo sono affatto. Forse, stanno dietro la cattiva scrittura, quella inautentica, quella falsa. Non stanno, certo, dietro la buona scrittura.

E David Foster Wallace spiega bene perché, non ha certo bisogno di una mia chiosa.

La buona scrittura è, dunque, figlia di un equilibrio (non facile da realizzare, ma frutto di una certa disciplina) tra sicurezza, perfino sfrontatezza, e rinuncia alla vanità e all’egocentrismo.

La terza affermazione che mi trova concorde, forse ancora più delle altre due: la buona scrittura ha a che fare con l’amore, è figlia dell’amore, prima e più che del talento.

Il talento, cioè la capacità di mettere insieme le parole nel modo giusto, è solo lo strumento utile, anzi necessario. Come la penna che scrive rispetto ad una penna che non scrive.

Ma, se non si hanno cose da dire, non c’è penna che tenga, che basti. La penna, da sola, anche se è buona per scrivere, non è capace di scrivere niente, se chi la usa non ha delle cose da scrivere.

E le cose da scrivere, quelle buone, quelle che ha un senso scriverle, nascono da una necessità interiore. Non certo dall’esibizionismo o dal narcisismo o dalla vanità, cioè dal desiderio di farsi ammirare o applaudire.

E la necessità interiore è figlia dell’amore, dell’amore per la vita, che genera gioia, desiderio di esprimere all’esterno ciò che si ha dentro, di condividere con gli altri la luce che si è accesa dentro di noi in un certo istante, in un certo luogo.

O è figlia del dolore, che non è contraddittorio affatto, come si potrebbe pensare, con l’amore per la vita. Si soffre, infatti, perché si ama molto la vita e magari essa non ci dà le cose che da essa ci aspetteremmo o desidereremmo.

Gioia e dolore sono, dunque, le due facce di un’unica medaglia. Da esse nasce il più delle volte l’impulso creativo. Quindi anche l’impulso a scrivere.

@ Giovanni Lamagna