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Sull’angoscia del vivere.

24 giugno 2015

Sull’angoscia del vivere.

Credo, sono convinto profondamente, che, prima ancora dell’ansia della separazione e della solitudine, l’uomo sia chiamato ad affrontare l’angoscia del vivere, che poi nasce dalla domanda di senso, di che senso abbia la sua vita.

Siamo di solito abituati a vivere con disagio, come una specie di sospetto, il rapporto con le persone che “non stanno bene”; non perché abbiano una qualche malattia fisica (in questo caso il dolore ci appare più spiegabile e quindi ci ingenera, paradossalmente, meno difese, meno ripugnanza), ma perché vivono quello che Giuseppe Berto definì “il male oscuro”, una malattia tutta interiore, non legata (almeno così sembra) a cause organiche, ma alla propria storia personale, al rapporto con il proprio vissuto (specie a quello con le prime figure significative, quindi il padre e la madre), al rapporto con il proprio Sé o Altro da sé.

Queste persone vivono ripiegate su se stesse, chiuse nel proprio mondo, che si riduce a una stanza (dalla quale non escono mai o quasi mai) o, a volte, addirittura a un letto (dal quale non hanno la forza di alzarsi mai o quasi mai).

Sono persone per le quali non c’è molta differenza tra il giorno e la notte: spesso passano notti insonni (rose da un tormento interiore che non riescono a smaltire, sciogliere, stemperare) e giornate intere a dormire (quando finalmente riescono in qualche modo a rimuovere, ad allontanare da sé l’ansia che normalmente le attanaglia e le tiene in una continua, spasmodica, esasperante tensione).

Sono persone per le quali anche la più splendida delle albe non ha senso, non ha potere energetico, rigenerante, e i tramonti hanno tutti il colore melanconico della fine di tutto, sono il preannuncio della morte.

Sono persone per le quali nessuna parola, nessun gesto d’amore e di tenerezza hanno valore e significato; sono spente, appassite, diventate insensibili, anzi ostili, ad ogni colore, ad ogni odore, ad ogni sapore, ad ogni suono, perfino alle carezze.

Se non si ammazzano è perché non hanno manco la forza di prendere una decisione simile; se lo fanno (e a volte lo fanno) è perché son raggiunte da un raptus, che, a quel punto, appare quasi come l’estrema, improvvisa forma di una residua vitalità.

Perché, di fronte a queste persone, proviamo, in genere, un terribile disagio, quasi un rifiuto, che a volte ci fa sentire anche un po’ in colpa?

Io penso perché esse ci rimandano un’immagine di noi che normalmente e istintivamente tendiamo a rimuovere, a rifuggire, ad allontanare. Sono la nostra Ombra, che sta lì, ma, appunto, nascosta: è la parte buia di noi con la quale non vogliamo fare i conti, che ci fa paura, ci mette ansia, se non proprio angoscia.

L’angoscia delle persone depresse, patologicamente depresse, è in fondo la nostra stessa angoscia. Che in loro (“malati” acclarati) è manifesta, vistosa, eclatante; mentre in noi (persone “sane”) è latente, nascosta, subdola.

Ma è la stessa angoscia, la stessa ansia, sulle quali alcuni (dopo poco che erano nati) hanno imparato a galleggiare (proprio come quando si impara a nuotare) mentre altri non ci sono riusciti subito, non ci sono riusciti più tardi e probabilmente non ci riusciranno mai più, perché l’idea del baratro, dell’abisso che si trova sotto di loro li atterrisce e li risucchia come in un gorgo mortale.

Noi persone cosiddette “normali” abbiamo imparato a galleggiare sull’angoscia esistenziale e ad affrontarla con i metodi e gli strumenti i più vari. Ma niente ci assicura che da questa angoscia e ansia esistenziali saremo protetti sempre, anche in futuro.

Forse per questo, proprio perché ci sentiamo fragili ed esposti al contagio, tendiamo ad evadere la compagnia, anzi la sola stessa vicinanza, delle persone che questa angoscia non sono in grado di affrontarla ed in essa sono sprofondate, senza avere la capacità di uscirne.

La loro malattia (che sa di morte) è la spia che ci segnala la nostra malattia (la paura della morte).

Giovanni Lamagna

Quali sono le cause della depressione?

2 marzo 2014

Da quali cause scaturisce, si origina la malattia (ammesso che sia una malattia) della depressione?

A me sembra che le risposte a questa domanda possano essere essenzialmente tre.

Ci sono vicende dolorose che a volte, per la loro oggettiva gravità, segnano indelebilmente la vita di una persona, specie se sono avvenute nella sua infanzia, l’età della vita che, come tutti sappiamo, maggiormente ci segna e ci modella.

E in questo caso penso che la depressione abbia una ragione profonda, direi quasi oggettiva. Se siamo nati nel dolore e se abbiamo vissuto i primi anni della nostra esistenza nell’angoscia del vivere, come potrebbe questa esperienza fondamentale non dare un imprinting definitivo a tutto il resto della nostra esistenza?

Ma ci sono anche altre cause che possono originare una condizione fondamentale di depressione.

Una è, forse, il desiderio onnipotente di vivere una felicità senza macchie e senza ombre, un Eden perpetuo, una primavera o un’estate infinite, senza mai autunni e inverni, uno stato di perenne fioritura e gaiezza.

Forse questo desiderio impossibile da realizzarsi, che è in stridente conflitto con la condizione di incombente precarietà dell’esistenza, ci impedisce di godere anche dei piccoli o grandi piaceri e gioie che la vita pure ci offre, inevitabilmente alternandoli con i dispiaceri e le sofferenze.

E getta un’ombra pesante su ogni luce che illumina la nostra vita, rannuvola ogni sole che riscalda la nostra giornata, ci intossica ogni gioia e intacca ogni piacere.

L’altra causa è, secondo me, legata ai sensi di colpa. O, meglio, a un senso di colpa fondamentale, connesso a quello che la teologia cattolica definisce come “peccato originale”.

Per cui ad alcuni di noi è impossibile provare piacere senza in qualche modo e in qualche misura provare anche un sottile o vistoso, interiore senso di colpa. Come se quel piacere non ci spettasse o non fosse giusto che lo sperimentassimo allo stato puro.

Ecco allora che il piacere per noi si deve accompagnare sempre (o quasi sempre) a un qualche dispiacere, a un quid che in qualche modo lo limiti o lo intossichi. Solo a queste condizioni siamo in grado di provare il piacere, che ovviamente in questo caso sarà sempre e solo un piacere parziale, limitato, intaccato.

In entrambi questi casi la nostra vita non sarà quella del depresso cronico e acclarato, ma sarà comunque accompagnata e contraddistinta da una vena sottile di malinconia, cioè di depressione latente. Sarà una vita incapace di godere fino in fondo della gioia di vivere.

E’ forse impossibile uscire dalla depressione grave, cioè quella cronica ed eclatante. La si può, in alcuni casi, tamponare coi farmaci, ma guarirne del tutto e in via definitiva è obiettivo disperato.

Si può, invece, ragionevolmente ipotizzare la guarigione dagli altri due tipi di depressione, quella più latente, quella dalle manifestazioni meno eclatanti.

A condizione, però, di riuscire a cambiare il proprio sguardo sull’esistenza.

Nel primo caso riuscendo ad accettare che la vita è fatta di luci e di ombre, di notti e di giorni, di stagioni diverse ed opposte, che si alternano, così come tutto in natura. Superando, trascendendo, quindi, il senso di onnipotenza che pretenderebbe di escludere ogni contingenza e precarietà dallo scenario della propria esistenza.

Nel secondo caso riuscendo a liberarsi di assurde mitologie, che l’umanità si è costruita da sola con le sue mani, in base alle quali l’uomo sarebbe nato per espiare una colpa originaria e che la sua vita quindi debba svolgersi inevitabilmente nel dolore di questa espiazione.

Intendiamoci, anche questi due cambiamenti non sono affatto semplici da realizzarsi. Implicano un cammino “terapeutico” faticoso e in genere lungo da praticare. Ma non sono, almeno in via ipotetica, da escludere.

Giovanni Lamagna

Esiste la verità?

19 gennaio 2015

Esiste la verità?

Domanda di fondo della filosofia. Quella dalla quale nascono tutte le altre. E la cui risposta sorregge tutte le altre risposte.

Se, infatti, la risposta a questa domanda fosse negativa (o radicalmente negativa), essa invaliderebbe ipso facto secoli e secoli di pensiero filosofico. Se fosse positiva (almeno parzialmente), lo convaliderebbe e gli darebbe senso e dignità.

Qual è la mia risposta? Provo a darla in tutta modestia.

Essa è senz’altro positiva. La verità esiste. Per me senza alcun dubbio.

Anche se nessuno di noi può avere la presunzione ed affermare di possedere la verità. Ciò che noi possiamo dire di possedere è la nostra idea di verità, la “nostra” verità. Non certo la VERITA’.

D’altra parte, se non esistesse (da qualche parte) la VERITA’, non si spiegherebbe perché gli uomini da sempre, da quando sono comparsi sulla faccia della terra, si arrovellano, chi più e chi meno, nella sua ricerca.

Da questo punto di vista Kant ha detto, per quanto mi riguarda, parole definitive in proposito. La verità in sé (il noumeno) è inconoscibile, in quanto le nostre modalità di conoscenza sono viziate dalle categorie di spazio e di tempo. E, quindi, sono per loro natura soggettive. Ma la verità in sé, cioè la Realtà che si nasconde dietro le nostre percezioni soggettive, esiste.

D’altra parte le singole verità, le verità personali (a cui ognuno di noi arriva attraverso un suo unico e singolarissimo percorso) in qualche modo formano alcuni dei tasselli del mosaico complessivo che costituisce quella che potremmo chiamare la VERITA’.

Da questo punto di vista, si potrebbe dire (e per me concludere) che nessuno di noi possiede la VERITA’, ma che la VERITA’ però ci possiede.

E’ questo fatto che spiega la nostra sete inestinguibile di verità, la sua ricerca inesausta. Anche nella piena consapevolezza che non potremmo mai possederla del tutto, ma solo sfiorarla, coglierla solo in minima e inadeguata parte.

Da questo punto di vista trovo profondamente vera l’affermazione di s. Agostino e mi riconosco pienamente in essa, se alla parola Signore sostituiamo la parola Verità:

Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. “Ci hai fatti per te (o Signore) e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te.” (Le Confessioni. 1, 1, 1).