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Gesù e la cultura.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020) Vito Mancuso afferma che Gesù ebbe un atteggiamento di fondamentale indifferenza, chiusura, se non disprezzo nei confronti della cultura e degli uomini che di essa vengono solitamente riconosciuti come i tenutari, i possessori unici: cioè gli intellettuali.

Cita a tale proposito la ben nota affermazione di Gesù contenuta nel Vangelo di Matteo (11, 25) “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, intendendo per piccoli non solo e non tanto i bambini, ma le persone umili e, persino, ignoranti.

Io credo, però, che qui Mancuso abbia preso un abbaglio; ed anche piuttosto grosso.

Bisogna, infatti, fare una distinzione tra il concetto di “erudizione” e quello di “cultura”, che a mio avviso coincide con la distinzione tra il concetto di “sapere” e quello di “sapienza”.

Sapienza e cultura sono una cosa, altra cosa sono l’erudizione e il sapere.

Io posso sapere un sacco di cose, essere cioè molto erudito e dotto, ma non essere un uomo colto e sapiente.

Come, al contrario, posso sapere poche cose, essere poco erudito e dotto, ma allo stesso tempo essere colto e sapiente.

Cosa fa la differenza tra l’uomo erudito e l’uomo colto; o tra il semplice sapere e la sapienza? Proverò a illustrarlo.

L’uomo erudito, che sa un sacco di cose, ha la testa molto piena, ma non ha una testa ben fatta (riprendo qui una frase molto famosa di Michel de Montaigne).

L’uomo erudito (il “dotto”) sa molte cose, ma non ne conosce il senso profondo, non ne ha trovato cioè il bandolo: le sue conoscenze sono un cumulo indistinto e insapore di nozioni, non un intreccio complesso di dati, nel quale egli è però capace di orientarsi, perché ne coglie i nessi e la profonda sintesi e unità.

L’uomo colto è invece colui che, magari, sa meno cose dell’uomo erudito (del “dotto”), però – delle cose che sa – ha colto l’intreccio, i nessi, ha assaporato il senso; ha magari (come ci ricorda anche Edgar Morin, riprendendo Montaigne) una testa meno piena dell’uomo erudito, ma sicuramente meglio fatta.

La distinzione che ho appena fatta tra l’uomo erudito e l’uomo colto la si può applicare – pari, pari – a quella tra sapere e sapienza: il sapere è un accumulo (magari molto vasto) di nozioni, ma senza sapore; la sapienza è una sintesi di conoscenze e intuizioni (magari non particolarmente numerose) e però ricche di sostanze e di sapore.

Ci sono ancora altre caratteristiche che fanno la differenza tra l’uomo erudito e l’uomo colto, come quella tra l’uomo dotto ed il sapiente.

Gli uomini eruditi, “gli uomini che sanno”, sono pieni di presunzione e di alterigia, sono spesso chiusi nel loro mondo, il mondo dell’accademia, parlano e dialogano solo con i loro pari, con gli addetti ai lavori, ignorano e in molti casi disprezzano gli altri uomini, a cui guardano con indifferenza e sussiego, dall’alto in basso.

L’uomo colto, il sapiente, è, invece, anzi resta – nonostante l’accrescersi con l’età della sua cultura e sapienza – una persona umile, potremmo dire anche uno “piccolo”, nel senso evangelico del termine, nel senso che appunto intendeva Gesù (in Matteo 11, 25), uno che fondamentalmente sa di non sapere, come diceva di sé il grande Socrate, uno che dialoga con tutti, che non si fa mai forte (e superbo) del suo sapere, ma ama condividerlo il più possibile, anche con coloro che ne sanno molto meno di lui.

Credo che Gesù provasse effettivamente indifferenza e, forse, addirittura disprezzo, nei confronti degli eruditi e dei dotti, ma che non provasse affatto gli stessi sentimenti nei confronti degli uomini davvero colti e meno che mai dei sapienti.

D’altra parte l’immagine di Gesù che a dodici anni si intrattiene nel Tempio di Gerusalemme a discutere con i Dottori della Legge, i quali si meravigliano della sua conoscenza delle Scritture, data la sua giovane età, basterebbe da sola a dissipare l’equivoco in cui è incorso, almeno a mio parere, il professore Vito Mancuso.

© Giovanni Lamagna