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Il fondamento dei valori

Senza la metafisica viene a mancare il fondamento esterno dei valori.

Ma i valori non perdono per questo ogni fondamento.

Perché resta loro un fondamento interno.

Posto non più in un altro mondo (metafisico), ma (potremmo dire) in questo mondo (fisico).

Che cosa, infatti, trattiene la mia mano (potenzialmente assassina), quando sono preso dall’ira, che (quasi) mi acceca?

C’è, indubbiamente, un qualcosa, qui in questo mondo visibile (non in un presunto mondo invisibile), che ferma la mia mano prima di compiere il delitto (anche se per un solo attimo) pensato.

Che la ferma, anche se non credo (più) in un Dio che me lo comanda.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “E’ solo la fine del mondo” (2016).

Un film come questo (che è la trasposizione cinematografica di un soggetto teatrale omonimo di Jean Luc Lagarce) mette in risalto molto bene le differenze tra il cinema e il teatro.

In modo particolare una: il teatro è la drammaturgia dei corpi, il cinema è in primo luogo (anche se non solo) la drammaturgia dei volti. Il cinema coi primi piano può far recitare i volti molto più che il teatro, che fa recitare invece soprattutto i corpi nella loro interezza.

Molte scene del film sono sequenze (efficacissime e intense) di primi piano, attraverso i quali i personaggi-attori recitano con gli sguardi più che con le parole. Che sono perciò, specie in alcuni momenti, ridotte al minimo.

Il film, della cui regia è autore Xavier Dolan, alla sua sesta prova come regista, è giocato tutto su una dinamica familiare (una specie di “ritratto di famiglia in un interno”), brevissima, della durata di una sola giornata.

La brevità della vicenda ne accentua (ovviamente) l’intensità e la tonalità emotiva. Tutto ciò che i personaggi provano se lo devono dire e raccontare in un tempo che sanno molto breve e questo li mette (tutti) in uno stato di profonda ansietà. Per cui tutto il film sembra ansimare, come sotto il peso opprimente di un tempo che fugge.

Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di successo, omosessuale, decide di tornare, dopo 12 anni di lontananza, nel suo paese natale e rivedere i suoi familiari più stretti: la madre, Martine (Nathalie Baye); il fratello maggiore, Antoine (Vincent Cassel); la sorella minore, Suzanne (Lea Seydoux) e la moglie di Antoine, Catherine, (Marion Cotillard).

Nessuno di questi capisce il vero motivo della venuta di Louis, dopo tanti anni di lontananza. E, infatti, tutti ne sono un po’ meravigliati, sorpresi.

Nonostante questo, però la madre Martine, apparentemente svampita e superficiale, è felice, addirittura raggiante, per l’arrivo del figlio: gli ha preparato un bel pranzo domenicale, vuole che il figlio stia bene, a suo agio, nonostante la timidezza e la taciturnità, che lo affliggono da quando era bambino.

Martine, anzi, vorrebbe di più: vorrebbe che i tre fratelli e la nuora trovassero il modo di stare bene assieme, di riuscire a comunicare in maniera serena e affettuosa. Almeno per qualche ora.

Quelle che ci provano di più sono la sorella minore, Suzanne, e la cognata, Catherine.

Molto diverse per carattere e quindi nell’approccio a Louis: la prima nevrotica, strafatta, a volte dolce, a volte aggressiva, ma comunque estroversa ed espansiva; la seconda, timida e impacciata, un po’ svampita, ma tenera e desiderosa di contatto.

Chi, invece, (almeno apparentemente) non ci riesce proprio è Antoine, il fratello maggiore di Louis, il quale anche lui alterna momenti di ilarità e sarcasmo a feroci scatti di ira.

Di fronte alle avance comunicative di Louis reagisce in modo scorbutico, non gradisce il suo tono affettuoso, che deve sembrargli sdolcinato e inautentico. Sembra un uomo insofferente, arrabbiato, scontento, che scarica continuamente il suo disagio esistenziale (di cui non si comprendono bene le ragioni) su tutti i componenti della famiglia, demolendo puntualmente i loro tentativi di convivialità e conversazione.

Ad un certo punto del pranzo, Louis fa un tentativo per comunicare il motivo per cui è lì, per cui è tornato a casa (noi lo abbiamo già appreso da una telefonata fatta in precedenza, mentre era da solo, ad un amico). Vorrebbe dire ai suoi familiari che è gravemente ammalato e che gli restano poche settimane di vita.

Ma, a quel punto Antoine dà in escandescenze. Dice a Louis: “Ma quando devi partire? Tra poco? Allora preparati, dai, che ti accompagno all’aeroporto?”. Insomma fa di tutto perché il fratello non comunichi alla madre, alla sorella e alla moglie la tragica notizia.

La scena, raccontata così, non dice niente, sembra addirittura banale e ripetitiva delle altre che l’hanno preceduta. In realtà è bellissima, estremamente intensa, stracarica di emozioni, degna del miglior Almodovar.

Sembra che Antoine si stia comportando secondo il suo solito modo abituale di rompere tutto e tutti. In realtà si comprende chiarissimamente che egli sa, che Louis gli ha comunicato la notizia in precedenza, mentre erano usciti da soli a fare una passeggiata.

La sua sembra la solita scenata isterica a cui ci ha abituato per tutto il film. E Martine, Suzanne, Catherine, inconsapevoli, così la vivono. Invece questa volta le intenzioni di Antoine sono altre: egli, che soffre già di suo per il dolore che evidentemente gli ha procurato la notizia comunicatagli da Louis, vuole proteggere gli altri componenti della sua famiglia; vuole evitare loro lo stesso dolore.

E fa di tutto perché Louis non parli, vada via, senza dire niente della sua terribile malattia e vicina morte.

Le scene finali del film sono estremamente toccanti. Louis va via, viene abbracciato e baciato dalla mamma e dalla sorella con un saluto straziante. Con la cognata il saluto è quello di un sorriso apparentemente distante ma in realtà estremamente complice.

Ognuno dei tre sembra essere in qualche modo consapevole che quello è l’ultimo momento in cui vede Louis ancora vivo. E però ognuno di loro vive la situazione come è capace di farlo, in base alle sue forze e capacità: chi rimuovendo completamente il dolore (Martine e Suzanne), chi con grande e naturale empatia, Catherine.

Il film, che nel primo tempo si avvia incerto, timido come il carattere del suo protagonista, nel secondo decolla, prende il volo, fa scoppiare le emozioni e i sentimenti.

Una famiglia precaria, debole, fragile, come ce ne sono tante, si scopre alla fine unita, accomunata dal dolore e dall’affetto, che ognuno dei suoi componenti esprime come è nelle sue corde, nelle sue capacità.

E ognuno di loro ci sembra ricco di umanità. Perfino Antoine (uno splendido Vincent Cassel), che per un buon due terzi del film ci era apparso odioso. Ma che alla fine del film ci appare come il più sensibile e affettuoso dei fratelli.

Il film è per me bellissimo, perché è riuscito a rendere senza (troppa) retorica la complessità dei sentimenti dell’animo umano, la difficoltà a comunicare, ma anche le grandi risorse che hanno gli uomini per farlo, specie quando si trovano in una situazione nella quale li accomuna un dolore profondo.

Giovanni Lamagna