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Recensione del film “Paterson” di Jim Jarmusch.

Ieri sera ho visto al cineforum il film “Paterson” (2016) del regista statunitense Jim Jarmusch.

E’ la storia di un giovane uomo e allo stesso tempo di una piccola cittadina americana del New Jersey, che hanno (coincidenza?) lo stesso nome: Paterson. Come a voler dire che entrambi sono i protagonisti del film: il giovane uomo e la piccola città di provincia.

Paterson di mestiere fa l’autista di autobus. Ogni giorno si alza alle sei e mezzo per recarsi al lavoro.

Ogni giorno fa gli stessi gesti: appena sveglio bacia con tenerezza da innamorato la giovane (e bella) moglie, che resta ancora a dormire nel letto e che si sveglia per un solo attimo a salutarlo e a raccontargli qualche sogno appena fatto o in corso.

Poi fa colazione col solito latte e i soliti biscotti.

Quindi esce di casa (una povera casa monofamiliare con un po’ di giardino) e si reca a piedi al vicino deposito degli autobus dove inizia la sua giornata di lavoro.

Sull’autobus, mentre guida, vede ed osserva dallo specchietto retrovisore le persone più diverse (bambini, giovani, adulti, anziani…), ne ascolta attento e incuriosito i discorsi: questo gli rende varia la giornata pur nella sua (apparente) monotonia e ripetitività.

Quando torna a casa, lo trova ad attendere la moglie che è sempre piena di coccole e di attenzioni e che ha occupato il tempo in cui Paterson era fuori a riverniciare le porte e gli infissi, a cucire e sistemare le tende alle finestre, a preparare torte per il marito e dolcini che andrà poi a vendere al mercatino del sabato, a dipingere quadri, a suonare la chitarra.

Dopo cena, Paterson (sempre più o meno alla solita ora) esce di nuovo per accompagnare il cane a fare i bisogni e per passare qualche momento al bar, dove beve una birra (sempre la stessa, solita birra) e dove si ferma a scambiare poche parole con gli altri avventori (anche qui varia umanità) e soprattutto con l’anziano barista nero.

Con tutti Paterson è gentile, garbato, affettuoso, (quasi) quanto lo è con la moglie.

La sua sembra, dunque, una vita banale e insipida. E in effetti, esteriormente almeno, lo è.

Senonché c’è un quid che la rende, invece, meno banale di quello che appare, anzi la rende una vita, pur nella sua assoluta normalità, del tutto straordinaria: Paterson ama i libri di poesie (William Carlos Williams, Allen Gisberg, Dante Alighieri, Petrarca…), ne legge molta, ma soprattutto ne scrive.

Egli cammina sempre con un piccolo taccuino appresso e appena può annota versi. Soprattutto al mattino, sull’autobus, prima di metterlo in moto ed iniziare la sua giornata di lavoro.

I pochi versi che riesce a tracciare sul foglio bianco hanno qualcosa in comune con la chiavetta che mette in moto il mezzo su cui lavora: gli danno l’energia giusta per incominciare bene la giornata e il “carburante” necessario per proseguirla sereno.

Nelle sue poesie coglie gli aspetti quotidiani del vivere (una di esse, ad esempio, descrive una semplice, apparentemente banale, scatola di fiammiferi) ma anche l’amore, soprattutto quello per la giovane donna con cui vive e senza la quale – confessa – il suo cuore si spezzerebbe.

In questa sua passione trova complice la moglie, che ne apprezza l’estro, l’ispirazione, lo incoraggia a coltivarla e lo stimola a pubblicare le sue opere.

Una sera, però, (è sabato e i due giovani sposi si sono concessi una pizza e un film) tornati a casa trovano che il cane ha completamente sbriciolato con i denti il taccuino dove Paterson annotava le sue poesie.

Per i due giovani è un trauma enorme. Una parte di loro è andata perduta assieme a quel taccuino. Paterson non riesce a dormire tutta la notte. La mattina esce per distrarsi un po’. Si ferma seduto su una panchina dinanzi alla vista del ponte sulla cascata.

Quando viene raggiunto da un uomo sulla quarantina, un giapponese, che chiede il permesso di sedersi accanto a lui. Paterson, come al solito, è gentile, aperto e disponibile, pur senza smancerie.

Il giapponese gli racconta di sé: è un poeta venuto in città per approfondire la conoscenza del poeta locale William Carlos Williams.

Chiede a Paterson se anche lui è un poeta: evidentemente ha avvertito in lui una certa consonanza. Ma Paterson, intimidito, risponde che no, lui fa l’autista di autobus. E, però, il poeta giapponese, quando dopo un po’ lo saluta per andare via, gli lascia lo stesso in dono un quaderno bianco. Come a dirgli: sì, tu farai pure l’autista di bus, ma io so che tu sei un poeta.

Il film ha un andamento lento, molto lento, monotono, a tratti quasi noioso. Andamento chiaramente voluto, ricercato dall’autore, il quale voleva evidentemente rendere al massimo i ritmi della vita di una piccola città di provincia statunitense.

Ma questo è solo lo sfondo superficiale su cui si svolge la vicenda, che è incentrata sulla figura di Paterson e sui suoi rapporti con Laura (la moglie), con i colleghi di lavoro, con gli avventori del bar, con il poeta giapponese.

E in questa vicenda tre cose colpiscono molto, quasi brillano, luccicano, come stelle nel buio della notte.

La prima è la profonda serietà, concentrazione, quasi solennità con cui Paterson compie i suoi gesti quotidiani e ripetitivi, sempre gli stessi, ma ogni volta come se fossero nuovi.

La seconda è il profondo rispetto, la simpatia umana, in certi momenti perfino la compassione e la solidarietà con cui Paterson si approccia al prossimo che lo circonda, che lo avvicina o che gli parla: in primo luogo, ovviamente, la moglie Laura, ma anche il proprietario e gli avventori del bar che lui frequenta la sera (quasi fosse un tempio laico), le persone che ogni giorno trasporta col bus, la bambina che si ferma a parlare con lui (guarda caso!) di poesia, il collega che lo saluta ogni mattina prima che inizi il lavoro e con il quale scambia brevi ma significative parole, le persone che aiuta a scendere dal pullman costretto a fermarsi per un guasto all’impianto elettrico…

C’è qualcosa di religioso in questo contrasto ripetizione/sacralità dei gesti, anonimato/empatia, che ricorda in modo particolare l’Oriente. E non è un caso, a mio avviso, che la scena finale del film veda la presenza di un giapponese.

Cosa ci faceva un giapponese in una sperduta città di provincia americana? Con questa citazione, forse, il regista vuole dirci che anche a così grandi distanze culture così diverse possono incontrarsi e parlarsi, parlare lo stesso “linguaggio”.

La terza cosa, che in fondo in parte è compresa nelle prime due e in parte le spiega, è l’importanza della poesia. Che sublima la vita povera e perfino banale di Paterson, però anche la esprime.

E’ vero, infatti, che la vita di Paterson resterebbe povera e banale senza la poesia, ma è anche vero che da Paterson non potrebbe sprigionarsi poesia se la sua vita non fosse già poesia, quindi niente affatto povera e banale.

E anche qui non è un caso, a mio avviso, che i suoi componimenti poetici, al di là dello stile e della forma, evochino gli “haiku” giapponesi. Sono, infatti, componimenti che descrivono oggetti semplici, aspetti della natura e, soprattutto, accadimenti umani ordinari, quotidiani.

La scena finale dell’incontro col poeta giapponese, che pare riconoscere in Paterson un suo pari, un suo omologo, sembra dare conferma a questa mia lettura del film e del modo di essere e di vivere del suo protagonista.

Un bel film! A saperne cogliere la delicata e profonda poesia.

Giovanni Lamagna